lunedì 26 settembre 2011

Il Divino Manzoni

Dicono che Manzoni sia stato un grande romanziere. Non per altro, ce lo propinano a scuola da almeno cent'anni, più o meno da quando lui era ancora senatore e fece adottare il libro nelle scuole della nuova Italia unita. E da quel momento credo che I Promessi Sposi non siano mai stati estromessi dai programmi scolastici. Caso unico insieme a Dante. Un autore ormai vetusto, prolisso, paternalistico e saccente, sempre con la risposta pronta, sempre con una massima da propalare al gentile lettore. Con un'idea della Provvidenza che ha già del democristiano ante litteram, con uno sguardo sulla povera gente a dir poco raggelante, con un rispetto per chi ispira rispetto, come il Cardinale Borromeo, che sa tanto di gesuitismo. E poi, soprattutto, così milanese da far ribrezzo. A noi che siamo nati e pasciuti tra muretti a secco e servitù della gleba, arabi e normanni, ulivi e viti, che ci interessa del lago di Como e delle lotte per l'indipendenza lombarda? Non sarebbe meglio per noi leggere Verga e Pirandello, Brancati e Capuana? No, il senatore milanese brigò a fine Ottocento per far acquisire il suo testo a scuola, e noi continuiamo a leggerlo supini. In barba all'autonomia scolastica, al localismo.

Visto che vanno di moda i numeri, ne farò qualcuno anch'io. Tolstoj dal 1863 al 1899 infila calibri tipo I Cosacchi, Guerra e Pace, Anna Karenina, Sonata a Kreutzer e Resurrezione. Tra Guerra e Pace e la Karenina passano addirittura solo otto anni. Otto anni per compiere due capolavori che da soli rappresenterebbero benissimo tutta la letteratura russa dell'Ottocento. Intanto il conte Tolstoj organizza comuni libere, intrattiene rapporti con la stampa e l'editoria, si incazza con la moglie, fa tredici figli e alla fine muore ad Astapovo, oscura stazione ferroviaria nel governatorato di Tula, sud di Mosca.

Dostoevskij è ancora più incredibile, sorprendente. Nel 1866 scrive Il giocatore, che pure sembra un romanzo giovanile, dove la profondità dei caratteri è solo accennata, quasi bozzettistica, anche se già schizofrenica. Ma lo stesso anno pubblica anche Delitto e Castigo, uno dei massimi romanzi della letteratura mondiale del XIX secolo. Come se non bastasse, due anni dopo tira fuori L'Idiota e tre anni dopo ha tempo di pensare ai Demoni, assieme all'abbandono del nichilismo giovanile. Chiude in bellezza con I Fratelli Karamazov, finito di pubblicare nel 1880. Insomma in quattordici anni si brucia la carriera di Dostoevskij, e questi quattordici anni gli guadagnano fama immortale, con queste pagine si consegna alla storia come precursore e anticipatore della modernità. E intanto l'isterismo, il vizio del gioco, la deportazione, l'esperienza rivoluzionaria, la morte per enfisema.

Anche Verga, più modesto senz'altro degli omologhi asiatici, scrive I Malavoglia nel 1881, otto anni dopo Mastro Don Gesualdo, e nello stesso tempo si dedica alle novelle, al teatro, alla fotografia, all'epistolario con gli amici letterati siciliani.

Manzoni invece ci mette vent'anni per scrivere i Promessi Sposi. Vent'anni per risciacquare i panni in Arno, per affinare la lingua, per sceverarla da contenuti dialettali. Perché – poi – non è dato sapere, visto che forse al Risorgimento è mancato proprio il localismo, il riconoscimento delle diversità culturali dell'Italia appena unita. E invece Manzoni è stato autore di primo piano nell'omologazione milanese della nuova nazione, la milanesizzazione della letteratura e il prosciugamento dalla lingua letteraria della lingua parlata, della parole. Ciò che Dante non ebbe mai l'ardire di fare, conservando anzi infinite sfumature locali, gergali e basse al suo poetare.

In vent'anni insomma Manzoni lavora al romanzo della sua vita, si direbbe. Ironia della sorte, ci mette quattro lustri per I Promessi Sposi e qualche settimana per Il cinque maggio. Avesse invertito la tempistica, forse i risultati sarebbero stati stupefacenti. In tutti i casi, Manzoni lavora vent'anni instancabilmente, tra una conversione e l'altra, e alla fine nel 1840 consegna alle stampe l'opera definitiva. Vent'anni per aprire il libro con un periodo di venti righe: uno degli incipit peggiori della storia della letteratura di tutti i tempi. Vent'anni per annoiare il lettore con la storia del manoscritto, che Stendhal seppe usare molto meglio. Vent'anni di ricerche storiche e linguistiche per inventare la figura di Lucia Mondella, della quale apprezziamo più gli spilloni nei capelli che la moralità tridentina. E nessuno riesce ad immedesimarsi in Renzo, troppo ingenuo e trattato come un sempliciotto che ha da crescere. Prendete Lucia Mondella e mettetela al fianco di Anna Karenina. Quest'ultima è monolitica, imponente, disperatamente indecisa, il simbolo stesso della solitudine umana. Lucia non è più che la nostra vicina di casa ancora vergine, bella solo quando è vestita a festa, che crede alle parole del prete come l'alcolista crede nella sua bottiglia di vino. E i cattivi, per carità, non ne parliamo. Don Rodrigo e l'Innominato lucidano le scarpe di Raskolnikov e Barry Lyndon, tanto per sforare nella letteratura inglese.

Il divino Manzoni adoriamo noi insomma come grande scrittore dalla prosa dura, noiosa, accidentata e prolissa. Dalle immagini da quadretto di genere, dalle espressioni troppo meditate. Forse questo è il guaio de I Promessi Sposi: essere stato per l'appunto troppo meditato, troppo pensato, troppo costruito, e poco vissuto.

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